(per sapere chi è Rudi, andate a leggervi anche il bellissimo racconto di Rubens Noviello su www.marciapadova.it)
ho letto lo scritto di Rubens. L’ho letto due volte. Lo faccio spesso: la prima lettura è quella del piacere, scorro le righe in modo fluido, senza “inciampare” in concetti profondi e impegnativi, senza sintesi e analisi... in pratica senza alcuna fatica. Si tratta di una lettura egoistica, forse sfaticata e disimpegnata, se vogliamo estetica (nel senso più letterale del termine, cioè legata al sentire, al cogliere la grazia -charis- che si riferisce al bello e al buono), volta a godere della cadenza piacevole delle parole, ad assaporare la musicalità dell’italiano usato bene.
La seconda lettura è quella del dovere, quella del soffermarsi e del comprendere, del lasciarsi interrogare e del cercare risposte, quella in cui si esercita la capacità di giudizio, quella che genera riflessioni, talvolta circoscritte e focali, più spesso libere, un po’ anarchiche, autopropulsive come flussi di coscienza.
Mi si conceda che nella lettura, diversamente da tutto il resto, il piacere venga prima del dovere.
Non conosco Rubens, ma mi piace pensare che nel suo personaggio egli abbia messo qualcosa di sé, come se la radice comune RU- di Ru-bens e di Ru-di non fosse casuale.
Ho letto recentemente anche la storia di Henry Rono, incredibile talento del mezzofondo e del fondo oggi sessantaduenne, al quale analogamente a Rudi la vita diede in gioventù l’esperienza del carcere. Henry, detenuto, correva avanti e indietro lungo un corridoio di settanta metri per chilometri e chilometri sotto gli occhi dei suoi compagni di sventura.
Credo che mai come nei casi di Rudi e di Rono sia lecito parlare di “evasione”. Evasione non come nelle accezioni comunemente abusate quali evadere dal carcere, evadere il fisco o evadere dalla quotidianità opprimente, ma come evadere da un sé alienato, corrotto, imprigionato e da un micromondo fittizio e ingannevole, chiuso e limitante, per ritornare ad un sé puro, fatto di pura percezione. Nella corsa il corpo urla e il sentire e sentirsi sono chiarificati, netti, puliti e definiti, sicuri e sinceri. E il mondo intorno si trasforma. A partire da noi il mondo si dispiega e diviene secondo una sequenza ritmata di passi e di battiti del cuore, di atti respiratori più o meno accelerati, di rumori, di freddo e di caldo, di metri e chilometri, di minuti e secondi che scorrono sempre nella stessa direzione, in avanti e basta. Il mondo, nella corsa, colloca e contiene in un tempo e in uno spazio le percezioni, accoglie la presenza del sé incarnato nel corpo proprio. Io sono, ci sono, sento e mi sento hic et nunc.
Visione egocentrica? Forse. Ma posso avere coscienza e conoscenza di ciò che mi sta intorno (benché si tratti necessariamente di conoscenza prospettica, provvisoria e parziale) solo a partire da me e dalla mia esperienza sensibile. Quindi “largo al sentire”.
E’ martedì mattina, mancano cinque giorni a Natale, alle 5.40 mi alzo perché ho un appuntamento. Guardo Silvia che dorme. Per altri settanta minuti le braccia di Morfeo la cingeranno... beata lei...
Rapida colazione. Esco, è buio pesto e fa freddo. Forse tre gradi sotto zero. Nei due minuti e quaranta che mi separano dalla torre sento il gelo, il peso del mio corpo di settanta chili che ora sembrano centoquaranta, le tibie che mi fanno male ad ogni impatto del piede, gli occhi ancora mezzi chiusi. Penso al carattere autodisciplinante della corsa. Autodisciplina. Ecco che cos’è la corsa in questo momento.
Sotto la torre trovo Chiara e conosco Davide. Aspettiamo Franco. Non sarà mica in braghette corte anche oggi?!? Dopo un minuto partiamo in quattro. Ad est, in alto, c’è una sottile falce di luna, il cielo è limpidissimo, il lato buio dell’astro d’argento si concede, The dark side of the moon. Ci starebbe in sottofondo un assolo di David Gilmour, come in shine on you crazy diamond.
E’ incredibile come la compagnia guarisca il dolore alle tibie, quasi avesse un oscuro potere antiinfiammatorio. Neanche le sento le tibie oggi, ieri al contrario ho zoppicato per più di quattro chilometri prima di riuscire a fare otto timide ripetute.
Qualche minuto e compare anche Enrico. Ora siamo in cinque. Il freddo comincia a farsi da parte, emergono altre percezioni. Mi disturba l’impatto pesante dei miei piedi, provo ad alleggerire il passo. Qui vanno tutti più forte di me. Molto più forte. E questo fa bene non solo perché innesca un processo evolutivo di incremento prestazionale, ma soprattutto perché ridimensiona le tendenze ipertrofiche dell’ego. Ridimensionamento. Ecco che cos’è la corsa in questo momento. Ridimensionamento e senso del limite.
Quando non chiacchiero il respiro assume un ritmo regolare, entra in risonanza con i passi: tre per inspirare e tre per espirare.
E’ veramente buio, penetriamo nella luce arancione del lampione, detta “lo stargate”, e vaneggiamo qualcosa su porte dimensionali, realtà parallele, viaggi spazio-temporali... Davide, che esce con noi per la prima volta, probabilmente non capisce. Penserà “dove sono capitato?”.
Mi sembra che stia aumentando lievemente l’andatura. La frequenza di passi-battiti-respiri incrementa decisamente. L’innalzamento non è proporzionale. Se dovessi rappresentarlo graficamente lo farei con una specie di iperbole. Percorriamo l’argine, oggi non ci saranno Leo, Roberto e Nicola.
Ad un tratto mi sento bene. Aspettavo proprio questo. Ci sono voluti quasi sette chilometri. Mi viene da aumentare, le gambe girano, sono più leggero, la mia corsa mi sembra persino bella, armonica.
Dal punto di vista neurochimico la cosa è freddamente giustificata dalla scarica ormonale. Eppure non è solo questo, ne sono convinto. Non si può spiegare tutto con un’illusione endorfinica. Non credo basti un neurotrasmettitore peptidico a farti sperimentare qualcosa di prossimo alla felicità. Dal punto di vista fenomenologico la realtà che si dà è questa: mi sento bene, le gambe girano, sono più leggero e la mia corsa mi sembra persino bella, armonica. Armonia. Ecco che cos’è la corsa in questo momento. Con buona pace della neurofisiologia.
Il freddo è lontano anni luce. E’ rimasto nella condizione spazio-temporale precedente, non ha superato il passaggio dimensionale dello stargate.
E poi, alla nostra destra, la luce cambia. E’ l’aurora. L’orizzonte ad est si striscia di rosa. Le nuvole basse sono viola. Sarà una bella giornata. Aurora. Ecco che cos’è la corsa in questo momento.
Una piccola disquisizione sulle differenze tra sun-rise, sun-shine, sun-bright e ricomincio a sentire un po’ la fatica sulle gambe. Enrico ci lascia al suo incrocio svoltando a sinistra. Siamo alla torre in sessantasette minuti. Il tempo è rimasto sospeso, come in un luogo di pace, per sessantasette minuti. Tempo sospeso. Ecco che cos’è la corsa in questo momento.
Ci possiamo anche concedere qualche altro istante di pace e sospensione. Lance è già da Emma per la colazione.
Inizia la giornata. Permane l’eco dei momenti corsi, risonanza cristallina di percezioni vive e vitali, memoria sensibile di qualcosa che assomiglia alla felicità. Memoria sensibile. Ecco che cos’è la corsa in questo momento.
Igor